
Dio è uno solo. Sarajevo requiem-Diana Bosnjak Monai
Ci sono paesi e città che non sono semplici località, ma posti che somigliano a persone la cui anima è stata sfregiata. Come la Bosnia e, in particolare, la sua affascinante capitale, Sarajevo. Una città che oggi, trent’anni dopo l’inizio dell’assedio (il più lungo della storia moderna) e tutto ciò che ne è derivato, ha ferite ancora profonde e aperte. Lo racconta bene Diana Bosnjak Monai nel suo romanzo “Dio è uno solo. Sarajevo Requiem”, pubblicato dalla casa editrice Besa Muci. Un libro prezioso, sincero e, nonostante le forti tematiche trattate, anche ironico. Un romanzo che ruota intorno alle storie di vari personaggi, Ahmet, Nina, Hannah, Mesud, Namir, Emina, ma che ha una protagonista assoluta, indiscussa e indiscutibile: Sarajevo. La città che aveva fatto del multiculturalismo, il suo punto di forza.
<<La nonna paterna veniva dall’Armenia, il nonno paterno era un ebreo ucraino trasferitosi a Belgrado. Da parte materna il nonno era di famiglia austriaca, arrivata in Croazia con l’espansione dell’Austria-Ungheria. La nonna materna, invece, proveniva da una famiglia mista: papà croato e mamma serba. Nina si era sposata con un musulmano bosniaco, e così aveva chiuso il cerchio. Cos’era lei, allora? Era musulmana, croata, serba? La verità è che non si sentiva nulla di tutto questo. Ai tempi della Jugoslavia, quando doveva dichiarare la nazione di appartenenza, aveva la possibilità di dichiararsi, semplicemente, jugoslava. In fondo non era quello lo scopo dell’unione? Perché dopo la guerra avrebbe dovuto sentirsi diversa? Durante l’assedio Nina era rimasta in città, come la maggior parte dei suoi concittadini. Nel periodo postbellico aveva lavorato sodo per le forze internazionali al governo: non si era mai tirata indietro, aveva aiutato il Paese a rinascere dalle proprie ceneri. Come avvocato per i diritti umani aveva combattuto per la sua gente, in prima linea, fianco a fianco con Namir. Eppure, quando gli stranieri se ne andarono e il governo bosniaco avrebbe dovuto pensare al proprio futuro, le chiesero più volte di che nazione fosse. Ma lei mica poteva rispondere sono musulmana…Come avrebbe potuto? Sarebbe stato come schiaffeggiare il padre defunto, sputare sul ricordo della madre. Non poteva negare quello che sentiva di essere. Così, semplicemente, si dichiarò jugoslava. Ma una nazione del genere, le risposero, non esisteva più>> (pp.93-94).
Le vicende dei personaggi di “Dio è uno solo” si svolgono tra le strade di questa città capace di ammaliare qualsiasi visitatore. Pagina dopo pagina si alternano tra di loro quartieri periferici e zone centrali, spaccati di vita e aneddoti delle tante etnie -musulmana, ebrea, zigana, tra le altre- che abitano la Gerusalemme d’Europa e la rendono una città (ancora oggi) unica nel suo genere. Nel romanzo si parla di vita, di morte e, inevitabilmente, anche di guerra. Una guerra le cui ombre perseguitano -e non potrebbe essere altrimenti- non solo coloro che sono rimasti, ma anche tutti quelli che se ne sono andati via (o vogliono andar lontano) in cerca di un’altra vita nel tentativo (vano) di salvarsi da una memoria logorante.
<<Il viale Ferhadija brulicava di gente di ogni tipo. I ventenni, dietro agli occhiali Ray Ban di contraffazione cinese guardavano cosa facessero i loro coetanei sparsi nel mondo seguendo le reti dei social più gettonati… Nessuno di loro aveva visto la guerra, ma erano cresciuti assediati dai racconti dei genitori. Cercavano solo di fuggire, di scappare più lontano possibile da questo posto dove nessuno avrebbe desiderato trascorrere l’infanzia o la giovinezza, dove esisteva solo un passato deprimente e non si vedevano prospettive per un futuro migliore. In attesa che arrivasse il loro turno per cambiare le cose, restavano parcheggiati lungo le vie, nei localini che prolificavano come funghi dopo la pioggia, senza far nulla>> (p.28).
Le vicende degli uomini e delle donne narrate dall’autrice nel testo sono nitide e dettagliate, tanto che l’impressione che si ha leggendo il romanzo è di essere stati catapultati di botto per le strade di Sarajevo. Nel testo non mancano anche riferimenti a problematiche attuali che attanagliano le vite dei cittadini sarajevesi che si scontrano quotidianamente con preoccupazioni non indifferenti. Dalla corruzione dilagante della politica locale all’emigrazione giovanile fino ai livelli allarmanti di inquinamento della città che, purtroppo, è perennemente nelle prime posizioni delle più inquinate al mondo, la scrittrice dipinge un ritratto veritiero, onesto e crudo della capitale bosniaca. Un libro che merita di essere letto.
*Il libro è un dono dell’editore
Dio è uno solo. Sarajevo requiem-Diana Bosnjak Monai, Besa Muci
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Un commento
Piero Aresta
È verissimo il commento sottostante di un libro tra i più belli da me letti. L’autrice si conferma scrittrice abilissima nel racconto reso semplice ma solo apparentemente, di personaggi complessi, sentimenti profondi, persone e situazioni complesse! La “memoria”: quella che rimane dentro nel profondo culturale di una comunità, non il rimpianto di una giovinezza tramontata, non la nostalgia di un’epoca dell’oro -probabilmente mai esistita nella realtà-, (sebbene questa parola sia stata presente nel titolo di una precedente opera dell’autrice (“Balkanostalgia”, appunto). Ancora una volta, con Diana Bosnjak Monai torna la scrittura della “memoria” oggi così diffusa nella narrativa contemporanea. La “memoria” così cara ad altre autrici, penso a Michela Marzano nel suo “Stirpe e vergogna” intesa come indispensabile premessa, nel bene e nel male per la costruzione del presente e soprattutto del futuro di ogni comunità.
Si! Nient’affatto nostalgia ma “digestione” culturale di una Storia, personale (Marzano) e insieme collettiva (Bosnjak Monai). La guerra è ovunque, assolutamente sempre, efferata distruzione fisica (di cose e esseri umani) e insieme di coscienze collettive, culture delle comunità coinvolte, sentimenti condivisi. Perché nel bilancio di così efferate “operazioni militari” come, -ma solo come ultimo esempio della nostra contemporaneità- la sporca invasione dell’Ucraina da parte della Russia, nel bilancio preventivo, dicevo, di chi -anche solo- avvia, una “guerra”, non si mette anche la voce dei costi della distruzione delle culture, dei vinti, ma anche dei vincitori (checché ne racconti la propaganda). E mentre le generazioni passano e i morti finiscono nei dimenticatoio dei cimiteri, i beni materiali pian piano vengono ricostruiti e le attività economiche e sociali in qualche modo ripartono, le culture, no! Lacerazioni e ferite nei sentimenti individuali e nel sentire collettivo, sono irrimediabili, rimangono per sempre, anche se si sceglie di non vederli, prima o poi inesorabilmente riaffiorano. Cosa rimarrà nella cultura non solo del popolo ucraino, ma di tutte le comunità nazionali dell’Est (e non solo) dell’Europa, indipendentemente dal loro idioma, delle lacerazioni profonde di questa sporchissima guerra? Cosa rimarrà di quelle che si stanno producendo nella cultura del popolo russo? Ecco perché raccontare la “memoria” è assolutamente utile, salutare per la cultura di un popolo, direi addirittura necessario.